Protagonista apparente di questa silloge è il disagio dell’uomo consapevole del proprio destino, incapace di ottenere una risposta razionale al perché della propria esistenza e di trovare un senso all’ineluttabilità della propria sorte. L’autore scrive i propri versi al presente, ben sapendo che l’uomo si interroga nell’istante della netta percezione del proprio stato transitorio. E sempre nel presente avviene ciò che il suo spirito vive, nell’angoscioso tentativo di superare il limite imposto dalla consapevolezza cosciente della propria fine. Non esiste un finale: l’esistenza di ognuno dovrà inesorabilmente compiersi, e soltanto allora avverrà il rilascio da quell’incompiuto che sta dentro la nostra vita. L’uomo, creatura cosciente, è così condannato a non sapere nulla da sé stesso e da nessun altro, né tantomeno dai fenomeni generati dalle proprie paure: deve fermarsi all’apparenza e accontentarsi. L’incontro lo fa con ciò che appare, non con l’essenza definibile anche come “idea” o “concetto immortale”, immune al suo tragico divenire.