Un paradossale dialogo tra sordi. Un maldestro poeta aulico si confronta con un improbabile, ermetico coro, composto da 180 poeti di diverse epoche, ognuno dei quali presta un verso per comporre una lirica originale. Attraverso le stagioni, la discussione ci porta a interrogarci sull’ amore e la morte e altri aspetti della vita. Stavolta in versi, l’autore torna, tra ironia e pathos, su un tema già affrontato in precedenti racconti: la combinazione infinita delle frasi in un gioco che, se pur tutto è già stato detto e scritto, consente di dar loro sempre nuovi significati. Più precisamente, si sofferma sulla possibilità di comunicare appieno pensieri e sentimenti attraverso le parole, sull’efficacia del linguaggio; in particolare della poesia: è la scelta delle immagini o il ritmo, la musicalità nella sequenza dei suoni, con cui esse vengono proposte, a dar senso per gli altri ai nostri pensieri, alle passioni, rendendoli compiutamente comprensibili? La domanda non ha, come ovvio, risposta. Tuttavia, alla fine, l’improvvisato poeta verrà comicamente zittito dallo scombinato coro che sembra non avere dubbi al riguardo: la musica è l’unico, vero linguaggio universale; sebbene quest’ultima sia, forse, solo l’eco della perfetta, inarrivabile melodia del brusìo neuronale che, comune a tutti, genera e conforma le idee umane.