E se la vita fosse pane spezzato da spargere sulla panchina dell’anima? E se i mostri di sale fossero pervicaci conoscenze e paure di tutto ciò che affonda e di tutto ciò che solleva? La parola poetica si fa ardita sperimentazione della fatica del vivere in un mondo in cui dio, forse, s’è un po’ distratto, ma viene continuamente invocato nei recessi degli avelli, nei viali stanchi delle solitudini, nei tronchi mutili e brumosi in cui scricchiola, come foglie morte, l’ansare di un vento che sibila, schiaffeggia, sospinge, accarezza. Mario sembra divertirsi ad incuriosire il lettore con accostamenti cromatici raccontando il suo mondo con l’abile maestria di chi sa che, se talora possono mutare le forme ridisegnandosi nella loro evoluzione, il naufragio dell’esistenza trova forza proprio nel raffigurare tutte quelle sfumature di delirio e onnipotenza, di sobria o acuta follia, di lotta continua fra bene e male. E che la notte sia fatta di pece, e che i sigilli di terre malferme cedano al peso dei passi, e che frullino le pagine del cielo solleticando, non è forse nel silenzio che l'oscurità si spezza davvero schiarendo l’ignoto errare? Sanno di mare gli echi ancestrali delle sirene. Sanno di incanto i viaggi di perduti viaggiatori. Sanno di rinascita i sogni che si accalcano riflettendosi nel nero d'inchiostro, nei vortici dell'immanenza, nelle periferie di fuligginosi giudizi che polverizzano ignari passanti. Dunque, cos’è che siamo davvero? Nastri di paglia? Gocce su gocce ammassate? Fogli veleggianti su labirinti di scale? Mario è in continua ricerca. Urlino pure i cori delle streghe, le serpi, gli osanna di folle festanti. Forse, siamo semplicemente tela da stendere e riempire con secchiate di colori: i rossi vermigli, i gialli ocra, i blu cobalto, i verdi foglia.